Forse la «superbia» dell’uomo occidentale viene dalla concezione del tempo che Cartesio introduce e diffonde. In questo modo di concepire il tempo, il tempo diventa spazio: è descrivibile come una linea infinita, anzi «è» una linea infinita di eventi. Il passaggio dalla descrizione all’essenza è fondamentale. Fin quando dico che il tempo è «come» una linea mi mantengo nel campo delle metafore. Riconosco che il tempo è qualcosa che mantiene il suo lato di mistero inafferrabile e tuttavia tento di dirne qualcosa dicendo qualcos’altro (l’infinitudine) di qualcos’altro (la linea retta). Quando passo al piano dell’esistenza invece non si sono più equivoci: intendo dire che il tempo (o qualsiasi altra realtà) «è proprio quella cosa lì».
Nel caso del tempo, pensare il tempo come spazio implica pensarlo come qualcosa che esiste già, come lo «sfondo» di tutto il resto» e come qualcosa che non ha limiti, nel senso che non ha inizio e non ha fine. È qualcosa che non ha una «forma», perché non ha limiti, e quindi non ha nemmeno un vero senso (anche se ha una direzione. Saranno necessarie le scoperte della termodinamica per poter sostenere l’idea che il tempo non è reversibile e quindi in qualche modo «va» da qualche parte.
Ma in generale, il solo sapere che il tempo è infinito porta l’uomo a pensare di averne sempre abbastanza. Come si dice: «Il mare si può forse vuotare con un cucchiaino?», dove naturalmente la dimensione della immaginazione prevale sul pensiero, perché la risposta corretta sarebbe «sì, avendo a disposizione un tempo infinito anche il mare si può vuotare con un cucchiaino», anche se nell’immagine del mare, che noi tutti abbiamo nella mente, la sua illimitatezza (ai nostri sensi) ci fa concludere, per un banale bias legato alle percezioni, che non si possa portare a termine il compito.
Ma lo spazio cartesiano viene pensato sin dall’inizio come infinito, e l’applicazione di questo concetto al tempo ne modifica profondamente il suo «peso» esistenziale.
Se il tempo è infinito io ne avrò sempre; e se non ne avrò io ce l’avrà l’umanità di cui faccio parte. Tolti gli obiettivi intrinsecamente contraddittori (realizzare un cerchio quadrato) qualsiasi compito io immagini o mi proponga è in linea di principio realizzabile, a condizione di avere abbastanza tempo: ci saranno questioni di soldi, di volontà politica, di opportunità sociale, ma non ci saranno più limiti ontologici.
Paradossalmente può essere che questa percezione del tempo si traduca in una sorta di «Pigrizia»: non c’è urgenza di realizzare la giustizia ora, in this very moment, come dicono gli inglesi, perché tanto «ci sarà sempre tempo». L’umanità nel suo complesso e nelle sue varie società rischia allora di trasformarsi in una sorta di perenne adolescente, che non a caso vive una concezione del tempo che tende a impedire le decisioni, sia pure per ragioni opposte a quelle descritte sopra: l’adolescente non ha ancora una «storia», vive nell’attimo e l’attimo è tutto. Non ha senso programmare o decidere, perché l’attimo è chiuso su se stesso e «non c’è tempo» per fare nulla. Le cose o sono o non sono. La ragazza che mi ha colpito ci sta o non ci sta: non ha senso immaginare un corteggiamento, che per forza di cose si svolge nel tempo.